La credenza delle scatoline

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Lo vedo che arriva dietro la curva e io non sono ancora pronta, maledizione.

Sono una di quelle tremende persone che vorrebbe fare 100 cose al giorno: andare  a fare una gita in montagna a 2400 mt, raccogliere le more sul sentiero, farne marmellate e crostate e poi con le crostate fare dei set, farci le foto e poi scrivere articoli e poi postarli su blog e linkarli alle mille pagine social e nel mentre prendere il sole, abbronzarmi, cercare fondi nei boschi per i miei set, dormire spudoratamente, chiacchierare con le amiche, scrivere il nuovo libro, andare a fare aperitivi, mangiare pizze e andare dall’estetista che mi si sta scrostando lo smalto fluo che ci sta così bene con l’abbronzatura.

Il tutto ovviamente nella stessa giornata.

Ovviamente non riesco a fare nemmeno un quinto delle cose.

Anche perché a dirla tutta sono scandalosamente pigra, in modo incoercibile.

E sì, le vacanze sono agli sgoccioli ancora solo un paio di giorni di sollazzo totale e si riprenderà la routine di spese dall’alba alla notte e unto imperante.

Come ogni fine agosto i buoni propositi li posso catalogare in pacchi da 5 e riempirci la credenza: sarebbe bello poterlo fare e, all’occorrenza, aprire le antine di vetro e cercare il buon proposito corretto.

Giramento di palle stratosferico? Apri l’anta e annusa la scatolina di “take it easy”.

Cibi introvabili e ansia galoppante? Apri l’anta e annusa la scatolina di “botta di culo”.

Insonnia per shooting impossibile il giorno dopo? “Apri l’anta (in piena notte) e annusa la scatolina di “finirà anche domani”.

Ansia da prestazione? Apri l’anta e annusa la scatolina di “non operi cuore-polmone, stai calma”.

Giornata di 20 ore davanti? Apri l’anta e annusa la scatolina di “cocaina”.

Ah no, quella no. Le droghe pesanti non fanno per me. Al massimo due spritz e sarò come nuova.

Ho passato un agosto a fare grandi esami di coscienza, a pormi tantissime domande e a raccogliere idee e positività, a cucinare e fotografare e scrivere e, soprattutto, a fare scorte di “bello” che possa inondarmi.

Questi croissant sono stati un amuleto magico per la mia anima: cibo per gli occhi, per il cuore e per la pancia. Saranno compagni di viaggio per i mesi a venire.

E speriamo che bastino a consolarmi in caso di “vaffanculo” incombente nell’aria 🙂

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Le fatiche dei compleanni

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E’ stato il mio compleanno. Che come sempre è una giornata assurda.

Normalmente accade che una al suo compleanno venga festeggiata, coccolata e anche un pochino viziata (una volta l’anno, ci sta).

Col cavolo!

Perchè se una è l’addetta alla cucina in famiglia, il giorno del suo compleanno lo passa come un mozzo sulla nave.

Taglia affetta trita monta spalma imbevi lava frulla passa rosola riscalda e raffredda e chi più ne ha, più ne metta.

Quindi il risultato è che arrivi a tavola che sembri Tom Hanks in The Terminal. O peggio in Cast Away. E i parenti pretenderebbero anche di farti foto ricordo, che se le riguardi dopo 20 anni pensi “Mi ero scordata che al 38esimo compleanno avessi avuto la scarlattina”. Eh certo, peccato che tu non l’abbia mai avuta, la scarlattina. Quella faccia era solo dovuta al tour de force mostruoso della giornata.

Perché se nelle altre famiglie il festeggiato si siede a tavola bello profumato di doccia e con la piega fatta, io di solito puzzo di fumo come uno spazzacamino per via del barbecue che preparo per tutti e ho i capelli che sembro reduce dal tifone Catrina. E la torta me la devo fare da sola. Ma non perché io la voglia spassionatamente. 

Perché gli altri se l’aspettano. E mica vorrai deluderli e non mettere le candeline e non farti tirare le orecchie e non sopportare la canzoncina ben augurante e il desiderio da esprimere. Che al solito è solo uno: fa che io sopravviva a questa giornata e fammi trovare la strada del letto il più presto possibile che ho un mal di testa pazzesco.

Quest’anno ore 16,30 finalmente dormivo, felicissima, senza nessuno intorno e con il telefono spento.

Un augurio però me lo faccio per il mio compleanno: di essere indomita e resistente nelle tempeste e leggera e sconsiderata nelle felicità.

 

 

Il mio rapporto con la cucina ( e buonissimi pancakes montani)

 

pancake ok

Una delle domande che mi viene spessissimo fatta mentre lavoro è:

“Ma tu, a casa tua, cucini?”

La risposta resta sempre la solita: non ve lo so dire!

Ci sono sere che torno a casa e mi sale il crimine alla sola idea di prendere ancora in mano una padella, posso tollerare di entrare in cucina ma a patto che nessuno si aspetti che io metta in tavola qualcosa e che io mangi perché sono nauseata da tutto e voglio solo una insalata scondita, che possibilmente si auto presenti sul tavolo senza che io debba nemmeno prenderla dal frigo.
Capita anche l’opposto.
Capita che magari per lavoro io abbia fatto da mangiare per 100 persone. Oppure che abbia preparato per uno shooting cannelloni, lasagne, arrosti e sformati ripieni di ogni BendiDio. E torni a casa con il frigo completamente vuoto, come la mia pancia, e darei non so cosa pur di avere una cena, non dico buona, ma almeno pseudo-edibile pronta. Andrenne bene anche qualcosa scaduto da un paio di giorni, basta che non abbia muffa verde evidente (la tollero solo sui formaggi erborinati ma con fatica).
Qualche rara volta ci pensa colui che divide il tavolo della cucina con me. Ma sono eventi rari. Come il passaggio della cometa Hale-Bopp. O quello dei Re Magi.

Quindi diciamo che di norma ho un rapporto abbastanza instabile con la mia cucina, che spesso ai miei occhi è più un laboratorio per il mio lavoro che il resto.

Ma quando stacco la testa, quando la smetto di ossessionarmi perché il branzino che ho trovato alla Metro non è grande abbastanza e la pirofila risulterà vuota “in macchina” e il cliente mi chiederà un pesce più grande che, mannaggia ai dannati pescatori, non mi hanno portato quella mattina al banco ittico, beh quando la smetto di massacrarmi di ansie in merito ai peperoni che non sono quadrati, alle melanzane che non ho trovato del diametro più piccolo, alle cipolle di tropea che non hanno il verde di vegetazione lungo 80 cm, a quel punto io faccio pace con il mondo intero e sì, cucino. Ma non solo.

Amo fare la spesa, perdendomi tra le verdure e le erbe aromatiche e le corsie dei supermercati. Amo il mercato, dove non riesco ad andare quasi mai perché di mercoledi mattina lavoro quasi sempre (e se non lavoro è perché ho fissato una visita medica o il commercialista mi chiama all’appello per sgridarmi). Amo portare tutto a casa, passare ore ai fornelli a spadellare e amo immensamente quando le cose, oltre che buone, mi vengono belle. E’ una pura deformazione professionale. Che per me Belle, non è esattamente il “bello pubblicitario” a cui sono abituata a rispondere durante l’anno.

Bello è qualcosa di reale, concreto, goloso, caldo, imperfetto e nella sua imperfezione assolutamente irripetibile e che fa venire una voglia irrefrenabile di divorarlo.

E amo fotografare, ricreare mondi, situazioni, cogliere l’essenza di quel momento e di quel piatto e riguardarlo all’infinito.

Si, decisamente la cucina fa parte di me.
Soprattutto quando non lavoro.

PS: questi sono degli adorabili pancakes alle zucchine fatti con uova di galline livornesi bio a KM0 e zucchine dell’orto. Niente di più semplice. Niente di più spettacolare.

 

La notte prima delle ferie

finta parmigiana

-1 giorno alle ferie. Che significa stanchezza, leggerezza ed incredulità.

Che significa che tra 24 ore tutto quello che è unto, cibi avariati, macchina che puzza come se fosse riposseduta, frigorifero traboccante che non si chiude, scontrini pieni di schizzi degli involtini di peperoni per lo shooting, sveglie antelucane con notti troppo brevi… Beh questo per 4 settimane sarà un ricordo.

Ahi! Come ogni giorno prima delle ferie non me ne rendo conto. Sono ancora troppo immersa alla caccia alle cipolle di Tropea con il verde di vegetazione ancora attaccato per potermi permettere di pensare a domani sera e quello che sarà.

Ho ancora troppi residui di cibi non identificati in cucina e alcune cose da chiudere. Ma sono estremamente leggera e ho il cuore scalzo. E anche un po’ sconsiderato. Dovrei mantenermi così anche per il prossimi 365 giorni; senza prendersi troppo sul serio.

I pomodori non sono perfettamente rossi? Ce ne faremo una ragione.

L’uva non è quella americana? Ci faremo andare bene quella italiana.

La pizza non ha il bordo abbastanza dorato? La doreremo in photoshop.

Il pesce puzza come il demonio? Grazie a Dio in foto non si sente.

Il cliente vuole che si scatti quando sono in ferie? Sarò in ferie e chissenefrega per il lavoro perso.

La panna montata non sembra panna ma yogurt? Vedetela come volete vederla, è panna. Poi se volete dire che è yogurt, a me va benissimo anche dire che sia yogurt.

La pesca non è abbastanza arancione all’interno? Fai tu, siamo in febbraio, come puoi pensare di trovarla rossa e succosa.

La sottiletta si scioglie troppo in fretta? Ovviamente, ci sono 40 gradi. La congeleremo e scongeleremo e ricongeleremo all’infinito fino a trovare un magico punto di fusione che non esiste in natura.

 

Ma stasera è tutto davvero relativo e davvero senza ansia. E questo senso di leggerezza io me lo vorrei tenere cucito addosso come la mia seconda pelle. Come la coperta di Linus. Come Brooke sta incollata a Ridge da almeno 25 anni (ma come si fa a rendersi ancora così terribilmente seducenti agli occhi altrui dopo 25 anni? Forse il segreto è nel fare figli con almeno altri 4 uomini).

Lo spritz prima delle ferie.

Le finta parmigiana prima delle ferie.

24 ore alle ferie.

E credo sia, solo per questo, la sera più bella dell’anno ❤

 

PS. la finta parmigiana è di ieri. Una coccola meritatissima l’ultima domenica di rientri di questo caldissimo luglio.

E il temibile e tanto odiato profumo di fritto (e di altri odori di cucina)

 

 

polpette melanzane

Sono 10 anni che faccio questo lavoro, quasi 10 anni di unte e folli peripezie di ogni tipo e sorta con desiderata da parte di clienti e non più o meno paranormali. Quindi diciamo che mi sono abbastanza corazzata di fronte a assurdità, nevrosi, attacchi di ansia da “questa melanzana è più lunga rispetto a quella del layout” e richieste che vanno contro le leggi della fisica e della gravità (per non parlare delle leggi del buon senso, su quelle non ci sono più speranze).

Però c’è una cosa che non riesco a tollerare e oggi proprio mi ha fatto salire la pressione alle stelle: le vessazioni causa “odore di cibo”. E quasi esclusivamente, arrivano da parte dei fotografi e dagli addetti ai lavori, mai dai clienti.

Ora, amici fotografi, spiegatemi: perché? Ma perché avete deciso di fare i fotografi di food se non potete sopportare di sentire nell’aria il profumo di una caponata? Ma anche fosse qualcosa di meno entusiasmante, che ne so, un filetto di merluzzo bollito.

Ma noi povere disgraziate, home economist, cosa dovremmo dire che abbiamo i frigoriferi di casa che puntualmente prendono odore di qualsiasi cosa anche molesta e anche non desiderata?

Eppure non diciamo niente, accettiamo con un sorriso luci ed ombre della nostra meravigliosa professione, che io amo smisuratamente!

Ma poi, come se fossimo delle sadiche pazze che passano la notte in elucubrazioni su come produrre più tanfo possibile per farvi appassire i gerani sui balconi e le peonie nei vasi.

Ma sapete noi poverette, che siamo unte dalle 9 del mattino alle 20 passate la sera, come saremmo più felici di non tornare a casa che sappiamo un giorno di sardine affumicate, un giorno di zuppa di porri, un giorno di peperoni e uno di grigliata mista di carni di maiale?!

Eppure non ce ne lamentiamo (quasi) mai.

Così, come quasi mai, dipende da noi quello che dobbiamo cucinare.

Quindi perché, spiegatemelo una santa volta, perché non avete deciso di fare i fotografi di matrimoni? O quelli di arredamento di interni? Il design, Buon Dio, non puzza!

Potevate fare i fotografi di orologi, di paesaggi, di prodotti cinesi di dubbio gusto e dubbio utilizzo.

Di people direi di no, perché anche le persone non sempre emanano profumo di rose.

E quindi dico: con tutti gli indirizzi che potevate prendere, se odiate così tanto gli odori della cucina, per quale stramaledettissima motivazione avete scelto questa strada me lo volete dire?

Per poi sfinirci a noi poracce perché c’è odore di fritto?

E sai com’è, dovevamo scattare bastoncini di pesce in pastella, cosa avrei dovuto fare?

Portarli da casa già cotti? Farli cuocere al thailandese di fianco al vostro studio? Portare un friggitrice e andare sul balcone a febbraio così non vi ammorbiamo le stanze? Oppure trovare una cottura innovativa mettendo i bastoncini in speciali sacchetti da ficcare in una serra idroponica per 3 giorni sperando che prendano il colore e la texture del fritto, non essendo fritto?! O in lavastoviglie? O nella lettiera dei gatti che magari per qualche strana reazione chimica si cuociono anche così?

Se voi riuscite a trovare un modo per cucinare senza odori, amici miei, mi tolgo il grembiule bella felice e vado a mangiarmi delle profumatissime polpette di melanzane con chips. Fritte da qualcun altro che avrà riempito il suo locale di meraviglioso odorino invitante, ovviamente.

PS: per la cronaca. Perché poi sembro pazza e non lo sono: oggi sono stata rimproverata per aver messo sul set, su una bruschetta, una fettina di pesce spada di 7 cm per 2 cm. Ecco, quello era l’odore insopportabile per cui sono stata nuovamente vessata. Io direi che di insopportabile c’è ben altro, mica l’odore!

 

Ci vogliono le palle.

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Ci sono volute le palle per schiacciare questo maledetto tasto “invia”.

Io ci ho messo due lunghi anni prima di arrivare a stasera, a trovarmi faccia a faccia con il pulsante della mail e il dito sopra che tentenna dietro un milione di “se”.

Sono due anni che ho un progetto. E’ un progetto ambizioso e folle. E ovviamente unto, perché altrimenti non sarebbe un progetto mio.

E’ qualcosa che è nato sulle ceneri di mille delusioni personali, senza le quali io non sarei quella di oggi. E’ un fulmine che è passato nel mio cervello veloce come una saetta, limpidissima e scintillante.

L’ho curato, coccolato, digerito varie infinite volte, elaborato, smontato, rimontato, controllato, riletto, rivisto.

E poi l’ho allontanato, accantonato e ripreso ancora ed ancora ad ondate.

Perché di questo progetto sono perdutamente innamorata.
Ma tutte queste lotte interiori io le ho vissute da sola, nel mio privato, senza trovare il coraggio di mettermi davvero in gioco, senza trovare il coraggio di espormi sul serio e correre il rischio di provare anche una grande delusione di fronte alle porte che potrebbero chiudersi. E’ più facile stare così, a cullare illusioni, senza provare a rendere realtà un grande Sogno.

E’ arrivato il momento di farlo, sotto un temporale estivo: che sia di buon auspicio

E’ tempo di mandare le pagine che ho scritto per due anni all’editore. E vedere se è realmente così pazzo da volerle pubblicare.

Ai sogni bisogna dare anche il fottuto coraggio di realizzarsi. E a volte, di coraggio, ce ne vuole davvero tanto.

Storia di un Polpo Errante

polpo

Questa è la storia di un polpo. Ma non un semplice polpo.

E’ la storia di un Polpo Errante.

Cominciamo a dire che adoro questo cefalopode, e non si da dove nasca questa passione dato che a casa dei miei non ne ho mai visto uno, nemmeno disegnato.

Devo averlo assaggiato chissà dove ed essermene innamorata.

Putroppo per me ho ereditato da quella Santa Donna di mia madre il raccapriccio verso tutto ciò che vive in acqua: dal pesciolino rosso della boccia al filetto di orata. Quando per lavoro mi tocca imbattermi in qualsiasi pesce o mollusco devo ricorrere a ogni mia risorsa per non diventare verde ramarro. Memorabile fu uno shooting nel quale c’erano da girare dei piatti a base di coda di rospo: quella volta, come assistente, in un raptus di genialità, ho chiamato il mio fidanzato. Che nella vita fa tutt’altro, tra cui studiare medicina veterinaria.

Ho pensato che lui avrebbe potuto avere più dimestichezza di me con sto pesciaccio.
Sottovalutando però che Gabriele è vegetariano da 20 anni.
Messi bene: un vegetariano e una a cui fa schifo toccare i pesci alle prese con non so quanti tranci di coda di rospo.
Per altro, come se ciò non fisse già abbastanza delirante, lo shooting si protrasse fino ad un orario inverecondo, le 5,30 del mattino! All’alba della 4, dato un caldo pazzesco e un avanti e indietro di delle rane pescatrici dal frigo, c’era un odore davvero nauseabondo. Ricordo che a me venivano i conati di vomito e Gabriele mi sventolava sotto il naso una pianta di timo per alleviare le mie sofferenze. (Per onore della cronaca, fu proprio lui a pulire dalla pelle i pesci, in modo chirurgico e preziosissimo!).

Da allo sono passati circa 5 anni.

Mi sono dovuta imbattere in pescato di ogni genere un milione di volte (altra perla rara fu lo spot del patè di sardine e 3 kg di sardine da eviscerare e cuocere in forno…) e un pochino sono riuscita ad addomesticare la mia naturale ritrosia nel maneggiarlo: basta che siano a filetti e non mi guardino perchè ho ancora i miei problemi!

Tornando al polpo, ho scoperto di potercela fare a cuocerlo solo un paio di mesi fa: prima di allora, l’unico modo per mangiarlo era che qualcuno me lo preparasse.

Avevo trovato un bellissimo polpo che pareva chiamarmi all’Esselunga ma, dato che sapevo che non l’avrei mangiato quel giorno, l’ho messo in freezer (primo viaggetto).

Cià accadde in maggio,per cui qualche giorno fa ho deciso che ormai era venuto tempo di cuocere il mio polpo per non doverlo poi cestinare.

Ma qui è sorto il problema: farlo bollire per 45 minuti in tre litri di acqua con il caldo che fa? Ma non se ne parla assolutamente!

E così ho deciso che l’avrei portato in montagna per il weekend e, una volta arrivata, avrei potuto con un pochino meno caldo accendere il gas in cucina.

Per cui ho preso il mio amico, l’ho prelevato dal freezer e gli ho fatto percorrere questi 100 km (seconda tratta).

L’indomani l’ho cotto come da manuale ma, non avendo voglia di mangiarlo subito, l’ho riposto in frigo e tenuto da parte per il giorno successivo. Così è stato, bello croccante servito su crema di melanzane e menta con pomodorini confit.

Avendone avanzata una metà, e dovendo rincasare, non ho avuto altra soluzione: polpo, te ne torni di nuovo in macchina, se fai il bravo ti faccio viaggiare sul sedile accanto al conducente e scegli tu la compilation di Spotify!